Sono accovacciato in cima ai 3222 metri del Blanc Giuir (Gran Paradiso) e cerco di ripararmi a malapena dal vento che da circa tre ore mi intirizzisce. Poco lontano da me, anche lui chiuso in freddolosa meditazione, Popi ha reclinato il capo sullo zaino e a occhi chiusi attende che il sipario di nebbia e a tratti di nevischio si dissolva per poter scorgere la grandiosa barriera di montagne a poca distanza da noi.
Siamo saliti fin quassù con gli sci, l’ultimo tratto a piedi, per fotografare una delle vedute più emozionanti, ma ora temiamo di aver perso il nostro tempo, di dover tornare. Quando si lavora occorre rispettare dei tempi e dei costi: sembra che il Blanc Giuir ci costerà caro, per questo non molliamo la presa e aspettiamo anche oltre il ragionevole.
Salendo al Blanc Giuir in una giornata diversa dalla nostra
Ben presto una sensazione fastidiosa si fa largo, ci sembra che quest’attesa non ci faccia imparare niente, lontani da una serenità irraggiungibile. È proprio il momento più brutto di tutte le avventure, la fatica. Fatica di pensare, di salire, di aspettare, di ricominciare da capo.
Avventura è fatica, fantasia, incognita e un pizzico di competizione.
Il vocabolario recita che avventura è “avvenimento di solito strano, unico o singolare” e, per estensione, “impresa che attrae anche se rischiosa”. Molte altre definizioni le son state date, a tal punto da autorizzarci a ritenere che il concetto di avventura sia mutevole non solo nello spazio ma anche nel tempo.
Inoltre “avventura”, come tutto ciò che è soggettivo o vissuto dall’individuo, assume toni e sfumature diverse per ciascuno di noi. Però si può concordare che, sempre e per chiunque, avventura si possa tradurre in esperienza.
C’è chi sostiene che avventura è uscire dalle tracce, trovare nuovi sentieri: quindi avere intuizioni, lavorare molto di fantasia per vedere dietro l’angolo, oltre le azioni e gli oggetti consueti, senza però dimenticarsene. Dobbiamo saper sognare ad occhi aperti senza perdere di vista la realtà.
Nella ricerca del nuovo spesso invece si rincorrono i record ad ogni costo, in affannosa selezione o minuziosa ragioneria dell’intentato. La contabilità, l’amministrazione e i computer tendono a sminuire l’aspetto umano. È l’esagerazione, quasi la mitizzazione di un aspetto particolare dell’avventura. Se si perdono di vista gli aspetti generali, minimizzando il soggettivo e l’umano e concentrandosi esclusivamente sugli aspetti tecnici, si abdica a favore di un’attività sterile.
L’atteggiamento verso l’avventura dei “giovani esploratori” soffre di velato militarismo: le squadre di adolescenti e bambini inventano giochi bellissimi, intessuti di quello spirito d’avventura che, così genuino e necessario a quell’età, costringerebbe l’adulto a rinunciare a molta della sua fantasia individuale, con esiti che potrebbero sfiorare il ridicolo.
Uscire dalle tracce è sicuramente eccitante ma non bisogna dimenticare la modestia: spesso si crede di fare qualcosa di nuovo che, con un po’ di documentazione, si sarebbe rivelato subito già conosciuto, già praticato.
Infine, nella ricerca ossessiva della novità, si finisce per essere molto più interessati a ciò che gli altri possono dire della nostra avventura, e quindi in definitiva alla loro considerazione maggiore o minore, che non all’apertura delle nostre porte interiori a tutto ciò che di positivo può insinuarsi in noi per consentirci un’esperienza vera.
L’avventura è senza dubbio al di sopra della storia e della cronaca: ci può essere, e grande, anche se nessuno la registra, la tramanda o la esalta. Ci può essere anche piccola, chiusa nel nostro intimo.
C’è chi identifica l’avventura con il pericolo che è insito nell’incognita; siamo sommersi da produzioni letterarie, da fumetti, da film e da trasmissioni televisive che esibiscono il pericolo come spettacolo. Si pretende, a volte con successo, di vendere allo spettatore in poltrona un’avventura che lo ecciti. Ma emozioni di questo tipo possono essere solo superficiali e inutili perché non lasciano alcuna traccia in profondità. In definitiva nello spettatore cedono presto il posto a indifferenza e noia; il protagonista subirà invece frustrazione e squilibrio.
La morbosa e generale attenzione al pericolo come ingrediente principale è un preoccupante sintomo di povertà dell’avventura stessa. Quando la comunicazione tra uomo e natura si riduce, i contenuti di un’impresa seguono la stessa sorte: pericolo e competizione assumono un’importanza esagerata.
La competizione vera e propria infatti è la baldanzosa maschera di un’avventura a volte inesistente: le gare si possono fare soltanto in un’ambiente ormai addomesticato, dove la natura non può dirci nulla perché neppure le prestiamo attenzione. Una gara automobilistica tanto è ricca di competizione e pericolo, tanto è povera di avventura. È ora di far chiarezza sulla differenza tra avventura e rischio, troppi scribacchini e troppi uomini di comunicazione hanno ricamato a loro piacimento.
Limitarsi a vedere l’azione sotto la luce della competizione ci porta ad un consumo ripetitivo: è senza senso volersi spingere sempre più lontano in relazione agli altri, perché ci sarà sempre qualcuno che andrà più lontano di noi e con lui anche una parte di noi stessi si allontanerà dal nostro essere.
Sforziamoci di imparare a vivere l’avventura per noi stessi, senza raffrontarci ad altri. Il nostro vissuto è un’esperienza unica e ci appartiene, ma è altrettanto vero che le nostre esperienze ci arricchiscono solo se le viviamo nella giusta disposizione d’animo: non possiamo gettare via delle occasioni così belle.
A seconda delle nostre possibilità, ma soprattutto a seconda della nostra disponibilità, una semplice passeggiata nei boschi può diventare la grande Esperienza della nostra vita.
Uno squarcio, seguito da un altro, ci si apre davanti, ormai sonnecchianti e scossi da brividi. Ma dovremo tornare ugualmente, questa è la decisione di un Gran Paradiso che in tutto il giorno non abbiamo visto, di una Becca di Gay imbronciata e di un livido Becco Meridionale della Tribolazione che si è concesso per pochi frenetici secondi.
Se noi eravamo saliti nel candore di vaste distese di neve primaverile, Marco e Franco sono tornati molto più avanti in stagione, quando le nevi ormai disciolte hanno rivelato giganteschi rovinii di blocchi e sassi: al di sopra, le pareti rossastre della grande muraglia del versante meridionale del Gran Paradiso sono lì al sole, proprio davanti. Forse anche loro, immobili da tempi geologici, si chiedono cosa siamo venuti a cercare: ma creste così brillanti e nitide, slanci di rocce così trionfali, colori di montagna così serale ed estiva, possono darsi la nostra stessa risposta?
“Oggi tutti parlano di avventura. Avventura è una parola presente ormai in ogni discorso. Effettivamente le si attribuiscono troppi significati, spesso perdendo di vista quello vero (Walter Bonatti)”