Premessa: cercare di decifrare questo articolo è stato per me un viaggio lungo e affascinante. Qualche mese fa venni giustamente preso in giro su un forum di montagna per avere fatto una domanda molto ingenua in proposito; siccome l’argomento mi interessava cominciai a leggere, a informarmi e a cercare. E` stato un viaggio di immagini, musica e storia, ancor prima che di roccia. Un viaggio da cui sono nati rami inaspettati, che mi hanno fatto scoprire altre strade, spesso completamente avulse da quella che stavo battendo ma altrettanto interessanti. Ritrovarmi a un certo momento a scoprire che alcune tessere cominciavano a combaciare nella mia testa e che infine – pur con mille buchi e punti interrogativi ancora irrisolti – e che forse mi ero fatto un’idea (del tutto personale) di cosa stia dietro a questo pezzo, mi ha dato un’intima soddisfazione.
Qui non cercherò di spiegare Zero the Hero (sarebbe del tutto pretestuoso, oltre che presuntuoso e fuori luogo), tuttavia lascerò intuire alcuni spunti personali (del tutto opinabili).
Ma se avete tempo e pazienza… cominciate a cercare. Non vorrei togliervi il piacere di scoprire tutto da voi, a vostro modo.
Quando nel 1980 la Rivista della Montagna pubblicò Zero the Hero, furono molti coloro che non capirono il senso di quella pagina bianca e delle carte del ‘matto’ e dell’‘appeso’ dei tarocchi inserite nel testo. Quella volta Motti aveva lanciato una provocazione assoluta, proclamando a gran voce la necessità di azzerare ogni cosa ribaltando un ordine ormai privo di ogni senso e necessità.
Diversi fra i poveri lettori di quella Rivista della Montagna del dicembre 1980 scrissero alla redazione lamentando una pagina mancante.
In effetti, qualcosa non tornava: a un’introduzione composta da una presentazione del pezzo da parte dell’autore corredata da una parabola orientale, seguono un’illustrazione a piena pagina, una pagina vuota e una pagina di note. Le note rimandano a… non si sa cosa, visto che l’articolo non c’è.
D’altra parte, anche ciò che c’è non è esattamente quello che uno si aspetterebbe da un pezzo su una rivista di alpinismo. Per il testo si rimanda alla prima puntata, vedi http://www.alessandrogogna.com/2016/09/08/zero-the-hero-1/.
L’articolo lasciò sconcertati i lettori dell’epoca: alcuni si lambiccarono il cervello alla ricerca di un’interpretazione, altri liquidarono il pezzo con fare sprezzante.
Gianni Battimelli, ad esempio, scriveva a caldo agli amici della redazione della Rivista della Montagna:
“Certo che mi ha fatto incazzare, il non articolo di Gian Piero Motti. Come mi fa incazzare vedere una persona intelligente, che ha scritto cose intelligenti, sprecarsi in esibizionismi vuoti. Se Gian Piero voleva dire che è ora di finirla con i Messaggi, le Rivelazioni e le Verità Finali, ha scelto proprio il modo sbagliato di farlo. C’è già in giro, nella letteratura alpinistica, abbastanza misticismo zen-orientaleggiante di terzo e quart’ordine per aggiungerci anche le divagazioni vuote (metaforicamente e letteralmente) di Gian Piero. “Caro lettore, io non ho nulla da dirti“. Proprio vero, peccato che per non dire nulla se ne vadano quattro pagine della Rivista.”
Anche se subito dopo – in chiusura della stessa lettera – Battimelli aggiungeva: “Ok, sono troppo cattivo. Spero che non se la prenda nessuno, tanto meno Gian Piero – in fondo l’ha detto lui, che voleva fare incazzare la gente”.
L’impianto dello scritto nella sua globalità, così come le sue varie parti (la parabola, le illustrazioni delle carte dei tarocchi, e soprattutto le note), offrono interrogativi spiazzanti e affascinanti.
D’altra parte, Maurizio Oviglia scrive che “gli articoli di Motti hanno in definitiva più chiavi interpretative, così c’è sempre qualcuno che poi si sente infastidito che tu voglia tirare Motti da una parte piuttosto che dall’altra“. In ogni caso, è impossibile anche solo avvicinarsi a questo scritto senza inquadrare il contesto storico e quello personale dell’autore.
Facciamo allora un passo indietro.
Gian Piero Motti alle Calanques, nei primi anni ’70 (archivio famiglia Motti, da I Falliti – Vivalda)

Gian Piero Motti nacque a Torino il 6 agosto 1946. Si accostò giovanissimo alla montagna e nel 1972 venne ammesso nelle file del Club Alpino Accademico Italiano. L’anno seguente entrò a far parte anche del GHM (Groupe de haute montagne) francese e, a metà degli anni Settanta, aveva alle spalle una notevole attività alpinistica nella quale spiccano la prima solitaria del Pilier Gervasutti al Mont Blanc du Tacul, altre ripetizioni di rilievo nel gruppo del Bianco, salite di grosso impegno tecnico in Dolomiti, numerose prime invernali e un’importante attività di ricerca sulle pareti delle valli piemontesi e della Provenza. Tuttavia Motti è conosciuto soprattutto per la grande mole di articoli, monografie, introduzioni, traduzioni, opere di grande respiro alle quali Motti lavorò con alacre puntiglio e a cui è legata la celebrità di quell’uomo “alto, fragile e bello” – sono parole di Andrea Gobetti – che nella notte tra il 21 e il 22 giugno 1983 decise di lasciarci e di tornare tragicamente, di propria volontà, da dove era venuto”.
Il percorso di Motti rappresenta un cammino del tutto personale che, come spiega Alessandro Gogna «si mosse da alcune domande fondamentali sul passato e sul presente, riferite ovviamente anche alla montagna. La svolta decisiva avvenne il 15 giugno 1975 quando egli ebbe, ricercata, un’esperienza visionaria mentre si trovava nella sua amata Val Grande di Lanzo. Dopo quel momento molti si resero conto che quell’uomo “aveva visto” più degli altri e “sapeva” più degli altri».
Gian Piero comprese che l’alpinismo non era soltanto ciò che tutti vedevano, raccontavano o praticavano: scendendo oltre la ruvida superficie si poteva scoprire come fosse un’allegoria del mondo e della vita, una sorta di punto d’osservazione privilegiato dal quale scrutare con attenzione fatti e accadimenti di ogni genere.
Ma cosa ha veramente voluto comunicare Motti attraverso pagine memorabili come Riflessioni, I Falliti, Il Nuovo Mattino, Zero the Hero o Arrampicare a Caprie? Una risposta completa sarebbe troppo complessa e richiederebbe un’analisi attenta di ognuno degli articoli citati: diremo soltanto che Gian Piero, attraverso una meditata provocazione, voleva presentare un ‘modello’ di alpinismo antitetico a quello allora comunemente inteso. «Il “Nuovo Mattino” – dice Roberto Mantovani – all’inizio fu un momento di forte rottura. Non fu la negazione dei pantaloni alla zuava e l’esaltazione della fascia nei capelli: Motti desiderava ‘soltanto’ proporre un alpinismo più umano, slegato dalla sofferenza e dall’ostentato e retorico eroismo. E per far questo era necessario scendere, abbandonare per un certo tempo le grandi montagne e dedicarsi ad avventure su pareti che, salendo dai prati verso i prati, permettevano di cancellare l’idea del dolore e della morte con la conseguente riacquisizione di un profondo umanesimo della montagna».
«Sarei felice se su queste pareti potesse evolversi sempre più quella nuova dimensione dell’alpinismo spogliata di eroismo e di gloriuzza da regime, impostata invece su una serena accettazione dei propri limiti, in un’atmosfera gioiosa, con l’intento di trarre, come in un gioco, il massimo piacere possibile da un’attività che finora pareva essere caratterizzata dalla negazione del piacere a vantaggio della sofferenza (G. P. Motti, Scàndere, 1974)».
Era l’esaltazione della vita in parete, di un ritrovato rapporto tra l’uomo e la natura con il gesto che, compiuto sulle rocce del fondovalle piuttosto che sulle ciclopiche muraglie alpine, non perdeva comunque alcun significato: potrebbe sembrare paradossale ma, a livello di vissuto interiore, per Motti esisteva perfetta coincidenza tra il trovarsi sulla Nord-ovest del Civetta o su una solare placca granitica a pochi metri da terra. Scendere per poi risalire, lasciare il mondo di cristallo dell’alta quota per tornarvi con uno sguardo nuovo: ecco l’essenza del “Nuovo Mattino” che, nelle intenzioni di Motti, non avrebbe avuto alcuna ragione di esistere se non in funzione delle “Antiche Sere”, ossia del grande ritorno (alla montagna) che ricorda quello di Ulisse ad Itaca.
«Perché antiche sere? Perché un albero mette frutti e fiori soltanto se ha radici e soltanto se la linfa vitale scorre dalle radici ai rami. Se si taglia l’albero all’altezza delle radici, ahimè! ben presto morirà, diverrà un tronco secco da ardere, senza fiori e senza frutti. Qualcuno, forse in buona fede, sta cercando di segare l’albero per staccarlo dalle sue radici, con l’illusione di dargli finalmente la libertà di movimento. Ma forse si è ancora in tempo a porre riparo, a cicatrizzare la ferita… (G. P. Motti)».
Anche se, come spiega perplesso Alessandro Gogna, «le “Antiche Sere” sono forse la contemplazione dell’irraggiungibile».
Ed infatti nell’articolo Arrampicare a Caprie, pubblicato nella primavera 1983 e denso di riferimenti psicoanalitici, Motti constata amaramente la fine del “Nuovo Mattino”, il crollo di un’illusione che diventa metafora della vita. «Il free climbing, – scrive Motti in quello che fu il suo ultimo lavoro – inteso non tanto nel senso di “arrampicata libera” ma in quello più ambizioso e filosofico di “libero arrampicare”, pareva essere nato come espressione di libertà e di assoluta disibinizione. Ahimè… ora ci si va accorgendo che invece ha portato gli alpinisti a schiavitù, dogmi, imposizioni, divise da portare, fazioni, provincialismi, miti e mitucci dell’uomo muscolo alla Bronzo di Riace, glorie e gloriuzze, re e reucci di paese… un quadro forse peggiore di quello dell’alpinismo di ieri. Il “Nuovo Mattino” rappresentava la possibilità di estendere la dimensione dello spirito a quelle strutture rocciose che erano invece ripudiate dagli alpinisti tradizionali. Era la possibilità di vivere la dimensione spirituale in una fase critica e delicata, in cui era necessario allontanarsi per un po’ dalla grande montagna […]. Ma dopo era necessario tornare, discendere; e il “Nuovo Mattino” era nato proprio come ponte per raggiungere la pianura dalla quale si sarebbero cominciate a scorgere le altre montagne, quelle vere, quelle che avrebbero portato all’Altopiano della Vita […]».
Il Nuovo Mattino non ha portato gli alpinisti a un livello superiore di consapevolezza; non li ha condotti ad assaporare gli aspetti più semplici e genuini della montagna e della vita distillati dalle epiche, dagli eroismi e dalle sofferenze, aprendo così loro le porte a un ritorno alle grandi pareti. Il fermento generato dal Nuovo Mattino non ha fatto altro che mettere da parte le manifestazioni conosciute di quel carico di oppressioni che l’alpinismo classico si portava appresso, ma non ne ha intaccato la sostanza: nel nascente fenomeno dell’arrampicata sportiva Motti intuisce né più né meno gli stessi fantasmi dell’alpinismo eroico, rivestiti a nuovo: egoismo, frustrazione, limitatezza, chiusura, superomismo.
Motti bambino in Valgrande di Lanzo (archivio famiglia Motti, da I Falliti – Vivalda)

Nel dicembre 1980 viene pubblicato Zero the hero, il più controverso e di sicuro il più misterioso scritto di Motti. In questo pezzo egli sembra esattamente sul crinale fra le speranze e le aspettative del primo periodo e la disillusione finale: il suo scritto suona come un ultimo grido, a metà fra una preghiera e un ammonimento disperato.
Ma chi è Zero the hero?
E` la nota [1] a suggerircelo in modo esplicito: Zero the Hero, il protagonista del racconto allegorico che dovrebbe stare sulla pagina bianca, è un personaggio immaginario che esce niente meno che dalla fantasia di Daevid Allen, il freak australiano leader dei Gong, un gruppo progressive rock nato a cavallo fra anni ’60 e ’70.
La musica ha avuto un ruolo molto importante nell’emancipazione dei giovani del Nuovo Mattino dai canoni del passato, costituendo un punto di rottura particolarmente espressivo e dirompente; i riferimenti musicali sono molteplici anche in questo articolo (vedi note).
Nel 1967 Daevid Allen, ventinovenne hippie australiano trapiantato stabilmente in Europa e già fondatore dei Soft Machine – storica formazione della scena jazz-rock inglese – viene bloccato in Francia dalle autorità causa problemi burocratici ed è costretto ad abbandonare la band di Robert Wyatt e compagni. Ciò gli permette di intraprendere un progetto insieme alla poetessa Gilli Smyth, che presto diventerà la sua compagna, e a una serie di musicisti che entrano ed escono dalla nuova band, jam dopo jam.
Daevid Allen

Dopo qualche anno di assestamento, nel 1971 esce Camembert Electrique. L’album è innanzitutto, insieme ai successivi, il manifesto più attendibile della personalissima filosofia demenziale di Allen: egli immagina un pianeta (appunto Planet Gong) abitato da omini verdi (pot-head-pixies), che si autogovernano con un sistema definito Floating Anarchy. Usano come mezzo di locomozione le teiere volanti (flying teapot) e ascoltano una radio pirata (Radio Gnome); il tutto sotto la supervisione di grandi saggi dall’intelligenza sovrumana (Octave Doctors).
Le canzoni riflettono queste tematiche ponendole sotto una luce goliardica, buffonesca, a tratti quasi infantile, con un’ironia nei testi ereditata direttamente da Frank Zappa, forse il personaggio che nella storia del rock più si avvicina a Daevid Allen. Da un punto di vista prettamente musicale, invece, i Gong sono ancora un calderone impareggiabile di influenze: dalla tarda psichedelia al nascente space-rock, dal jazz-rock alla musica cosmica.
La lp cover di Flying Teapot

Nel gennaio del 1973, Allen e compagni entrano in studio per registrare Flying Teapot, che si può considerare a tutti gli effetti un concept-album riguardante la vita su Planet Gong, ed è il primo di una trilogia, quella di Radio Gnome Invisible, che comprenderà anche i successivi Angel’s Egg e You.
Allen sostenne di aver ideato la mitologia che si sviluppa in questi album per effetto di una visione (indotta da… non si fa fatica ad immaginare) che egli stesso avrebbe avuto durante “il plenilunio della Pasqua del 1966”. Secondo tale visione lui non era che un esperimento sotto la supervisione di forze soprannaturali che chiamò i Dottori dell’Ottava, i quali alimentano e trasformano ogni forma di vita attraverso la musica. A partire da questa visione cominciò a elaborare tutta la filosofia Gong.
La storia in Flying Teapot, il primo album della trilogia, inizia quando a un porcaro egittologo chiamato Mista T Being viene venduto un orecchino magico da Fred the Fish (“Federico il Pesce”), venditore ambulante di teiere antiche e collezionista di etichette di tè. L’orecchino è in grado di ricevere messaggi dal pianeta Gong grazie a una stazione radio, la Radio Gnome Invisible. T Being e Fred vanno in Tibet, sull’Himalaya, dove incontrano (in una grotta) Banana Ananda, grande yogi della birra. Ananda si offre di cantare il Banana Nirvana Mañana e si ubriaca di Foster’s Australian Lager. Questi ultimi avvenimenti riflettono le esperienze di vita dei primi componenti del gruppo, Daevid Allen e Gilli Smyth, che incontrano il loro sassofonista, Didier Malherbe in una grotta a Maiorca.
Nel frattempo il protagonista della mitologia, Zero the Hero, conduce la sua vita di tutti i giorni, quando improvvisamente ha una visione nella Charing Cross Road di Londra. Viene così obbligato a cercare dei compagni d’avventura per fondare il culto del Cock pot pixie, uno dei tanti pot-head pixies (folletti testa-di-teiera) del pianeta Gong. Questi folletti sono verdi e hanno delle eliche sulla testa che permettono loro di volare con le loro teiere.
[…]
Per chi vuole leggersi la continuazione della rutilante e lisergica saga, ecco il link.
Pic-nic party per i Gong

Questa mitologia ha un carattere semiserio e gran parte di essa si riferisce in qualche modo alla produzione e al consumo di tè (più probabilmente, tè di funghi allucinogeni). I personaggi della storia sono spesso usati come pseudonimi dei componenti della band, tra i quali Daevid Allen è Zero, Mike Howlett è Mista T Being e Gilli Smyth è la strega buona Yoni.
Spiegata l’origine del titolo, come interpretare la premessa e soprattutto la pagina bianca e le note ad essa correlate? L’ho scritto nella premessa: non cercherò di spiegarlo nei dettagli, ma mi limiterò a suggerire una chiave di lettura.
Innanzitutto non si può prescindere da un chiaro intento provocatorio, di cui è permeato tutto lo scritto.
Nell’introduzione Motti sembra dichiarare in modo esplicito quale sia il suo target: nella prima parte si dimostra fiducioso ed amichevole con un lettore che immagina aperto e disinibito, mentre la parabola di Gotama pare una dichiarazione di estraneità verso coloro i quali rimangono attaccati ottusamente e ad ogni costo a lidi conosciuti seppur in disfacimento, senza la capacità né la curiosità di vedere appena più in là del proprio naso.
Ed in effetti è proprio il tema della ricerca che sembra essere centrale.
Fin dall’incipit: Chi saprà stupirsi regnerà…
I discepoli di Budda sono alla ricerca del Nirvana; così come lo Zero the Hero della mitologia Gong è affaccendato nella ricerca di eroi.
Ma soprattutto: in che cosa è impegnato il lettore dell’articolo, se non in una ricerca dell’articolo stesso, celato dietro una pagina bianca?
Bianca, non vuota. La carta dell’appeso, una persona che sta con la testa sottosopra, fa il paio con quella del matto in prima pagina: forse per cominciare la ricerca dobbiamo cambiare punto di vista e rinunciare alla maniera di ragionare che ci è più consueta?
Ma i tarocchi non sono l’unico indizio; quelle note a riferimento di un testo che non c’è (assolutamente geniale) non sono forse anch’esse indizi?
Sapete che cosa mi viene in mente? Paycheck.

Paycheck è il titolo di un film di John Woo del 2003, ma soprattutto di un racconto di Philip Dick del 1953. Philip Dick è unanimemente riconosciuto come uno dei più grandi scrittori di fantascienza di tutti i tempi: la sua fantasia visionaria assieme alla straordinaria intelligenza gli ha permesso di narrare vicende complicatissime eppure coerenti fino all’ultimo dettaglio. Leggetevi ad esempio Le tre stimmate di Palmer Eldritch e poi ditemi se non ho ragione.
Paycheck, dicevo. Insomma, è la storia di uno scienziato che dopo aver lavorato su un progetto un po’ losco si ritrova senza memoria. Senza memoria ma con una busta, che lui stesso si era spedito tempo prima, contenente una serie di oggetti di uso comune. Sì, perché durante il progetto aveva subodorato qualcosa di strano e allora, intuendo sviluppi intricati e per lui drammatici (perdita della memoria compresa), si era spedito una serie di oggetti come indizi del suo passato, prevedendo che gli sarebbero stati di aiuto sia come utilizzo che come memoria.
Ecco, le note di Zero the hero per certi versi mi sembrano un po’ come gli indizi di Paycheck.
La differenza è che – mentre nella vicenda di Dick gli indizi hanno una funzione ben precisa – nello scritto di Motti penso abbiano una valenza più emotiva. Intendiamoci: di sicuro è possibile trovare dei collegamenti con personaggi, situazioni ed episodi reali, ma ai fini dell’interpretazione dell’articolo fantasma credo che la maggior parte di esse serva soprattutto a staccarci dal contesto vero e proprio, ad aprirci gli orizzonti, a metterci con la testa sottosopra.
Gli inviti a lasciare da parte la razionalità, d’altra parte, sono molti: l’incipit, la parabola, le carte dei tarocchi, la nota [5]… Credo quia absurdum, frase attribuita a Tertulliano (apologeta del II secolo), secondo il quale i dogmi della religione cristiana vanno sostenuti con convinzione tanto maggiore quanto meno sono comprensibili alla ragione. Può darsi che Motti faccia così anche una sorta di autocritica, lui così intellettuale…
Curioso come anche ad altri l’articolo di Motti susciti paralleli fantascientifici; nel caso di Roberto con il libro Options di Robert Sheckley (vedi nelle note).
Quindi?
Gian Piero Motti scrive nell’introduzione: «Questo racconto è come uno specchio fedele in cui ognuno saprà trovare la propria immagine vera, se avrà il coraggio di specchiarvisi».
La pagina bianca è quindi uno specchio; la pagina bianca riflette l’immagine di ciascun lettore.
Mi è subito venuto spontaneo collegare queste parole a quelle scritte da Carlo Caccia nel suo ritratto di Motti: «L’ideale di vita di Gian Piero Motti, ridotto ai minimi termini, era la ricerca della propria strada, della propria via: un cammino personale che, una volta individuato, si dischiude man mano che lo si percorre». «Quando gli chiesi notizie sulle pareti della Valle dell’Orco, – racconta Ivan Guerini (altro personaggio chiave della rottura con l’alpinismo tradizionale, questa volta in Lombardia) – mi disse che in Val Masino esistevano placconate non ancora salite, alte e difficili. Oggi, ripensando a quel momento, credo che Gian Piero abbia voluto sussurrarmi di non seguire la strada degli altri ma di cercare la mia: “Quella che ora non vedi ma che si dischiuderà mentre la percorri!”».
Il famoso articolo, quindi, esiste davvero. Ma sta dentro ciascuno di noi.
La pagina è bianca perché Motti non lo può scrivere: siamo noi a doverlo fare.
Ciascuno di noi deve cercare la propria strada; lui può darci soltanto qualche piccolo indizio, qualche stimolo: ecco perché di questo scritto sono vergati – nero su bianco – soltanto i corollari.
Roberto (buzz | 06/08/2011)
Guarda cosa ho trovato (l’astronauta si chiamava Mishkin):
La bocca del serpente secerneva fantasie. Il suo respiro era pura illusione. I suoi occhi erano ipnotici e i movimeti delle ali lanciavano incantesimi. Anche la forma e le dimensioni erano illusorie, in quanto era capace di trasformarsi da gigantesco a microscopico. Ma quando si trasformò diventando più piccolo di una mosca, Mishkin lo catturò abilmente e lo infilò in una bottiglietta di aspirina.
– Cosa ne vuoi fare?- domandò il robot?
– Lo conservo finché non verrà il momento in cui potrò vivere nella fantasia.
– Perché non adesso?
– Perché adesso sono giovane – rispose Mishkin – e devo vivere avventure, agire e soffrire. Più tardi, molto più tardi, quando i miei fuochi saranno consumati e i miei ricordi si saranno offuscati, libererò questa creatura. Io e il serpente alato ci avvieremo insieme verso quell’ultima illusione che è la morte. Ma non è ancora il momento.